Da una stretta e bassa porta marrone di un grande edificio al centro di Chisinau, si accede ai brulicanti Uffici immigrazione della città.
Si sa che le burocrazie hanno tempi lunghi, noi Italiani lo sappiamo per certo, perciò le speranze di ritirare il permesso di soggiorno entro quella mattinata di agosto erano piuttosto basse.
Sapevamo, però, e saperlo ci dava animo, di avere un passaporto forte, amaranto ed europeo, che ci aveva già permesso di entrare senza troppe questioni in un Paese fuori dall’Unione ed erano dopotutto già tre mesi che vivevamo in Moldova.
Siamo dovuti tornare in Boulevard Stefan cel Mare 124 per quattro volte prima di ricevere il documento, e queste è la breve storia di quello che abbiamo vissuto.
Non dirò che la fila, le attese e i due mesi intercorsi tra la richiesta e l’ottenimento siano stati intollerabili e stancanti. Penso che camminare verso un ufficio degli affari interni con la certezza che si verrà accettati, e senza la paura di essere rispediti al mittente, alleggerisca di molto il peso di questo tipo di incombenze. E le renda più simili ad un’avventura che a un’odissea.
La stessa leggerezza, qualcuno di noi si è anche sentito scocciato e stufo in qualche momento, non ci avrebbe attraversato se fossimo stati in fuga dalla guerra o se stessimo aspettando il ricongiungimento con una persona amata.
La nostra esperienza da immigrati che aspettano nei corridoi affollati di diventare “regolari” ci ha fatto incontrare tanti volti e molte lingue: di sicuro non avevo mai visto un passaporto uzbeko, e mai sentito tante lingue insieme nella stessa stanza.
Una delle quattro volte, doveva essere la seconda, un signore ucraino che ci ascoltava con discrezione da un po’, si è avvicinato a noi con una scusa qualunque.
Ci voleva dire che stava tornando in Italia, in una regione del Nord, dove aveva già vissuto anni prima e dove aveva imparato a fare il pizzaiolo. Poi era tornato a casa, a Odessa, e lì aveva aperto una pizzeria.
Quella mattina, però, il signore aspettava per un motivo diverso dal nostro: era scappato. In Ucraina sarebbe stato costretto ad arruolarsi, e allora aveva provato a uscire dal Paese e c’era riuscito, ci dice con lo sguardo di chi ti sta chiedendo complicità, e comprensione.
La terza volta che siamo tornati all’ ufficio immigrazione, mancava ancora la copia ufficiale di un documento che attestasse il nostro domicilio nel Paese, non eravamo più gli unici volontari italiani in fila: davanti a noi, più baldanzosi e allegri degli altri e in cerca di un caffè, aspettavano dei ragazzi italiani, che più tardi avremmo scoperto essere cooperanti in Moldova per una Ong.
D’altronde, fino ad oggi gli stranieri che abbiamo conosciuto sono venuti qui per fare volontariato o lavorare in organizzazioni umanitarie, ad eccezione di una coppia di americani che studiavano il Paese in relazione alla salute mentale degli abitanti.
Siamo riusciti a ritirare il tanto agognato permesso di soggiorno a metà ottobre, e a me quasi dispiace non dover andare più in quella sala d’aspetto che sembrava un po’ una classe di scuola, forse per il colore delle pareti, che erano per metà azzurre e per metà bianche.
Le vite di tutte le persone che sono passate per quegli uffici sono per forza diverse tra loro, anche soltanto per la grande varietà di ragioni che spingono qualcuno a lasciare il proprio Paese.
Ma c’è qualcosa in comune tra chi lascia il proprio posto per un altro, ed è l’esperienza del cambiamento. Che sia per necessità incombente o per volontà propria, cambiare lingua, cultura, cibo, cambiare Paese, richiede sempre un grande sforzo e un discreto spirito di adattamento, e sia che tu sia un giovane volontario alla ricerca di te stesso o un lavoratore turco in cerca di un futuro migliore, sta a ognuno di noi provare a fare di tutto per facilitare il viaggio di chiunque sia in cammino.