Il Kenya non mi ha detto niente.
Mi ha semplicemente lasciata entrare.
Come fa il richiamo della moschea all’alba: arriva e ti sveglia senza chiederti il permesso.
All’inizio ho provato a capirlo: le parole, i gesti, i tempi.
Poi ho smesso e ho cominciato semplicemente a stare.
Con i bambini del Rescue Centre che chiedono solamente che tu rida con loro, che tu sia vera, che tu non abbia paura di sporcarti le mani e che tu sappia giocare per terra, senza scuse.
E tra i matatu pieni di colori e con i clacson che suonano una lingua tutta loro.
Il Kenya mi ha insegnato a non tradurre tutto.
A mangiare con le mani, a ballare anche senza musica, a rispondere con lo sguardo e a sopportare il caldo che ti si incolla addosso,
con il sudore che diventa parte della pelle stessa.
Il Kenya mi ha insegnato a stare negli imprevisti.
Come quando salta la corrente, quasi sempre proprio mentre stiamo cucinando: un attimo prima l’olio sfrigola, un attimo dopo il buio.
Allora ci cerchiamo ridendo, con una torcia in mano e l’altra che tiene la pentola,
come se fosse la cosa più normale del mondo, e lo è.
Più di tutto, qui mi è stata insegnata la semplicità.
Quella che si sveglia presto, cucina con ciò che c’è, condivide, si siede per terra, balla spesso.
Una semplicità che non è rinuncia, ma speranza: silenziosa, resistente, senza mai perdere la serenità.
Undici mesi in Kenya e mi sento piena.
Non di obiettivi, ma di gesti che sono entrati sotto pelle.
Qua il tempo cammina piano e io sono diventata lenta con lui.
Ho imparato a respirare con più calma, a non rincorrere nulla.
Arianna