Nel cuore dell’isola di Panay, nei pressi del monte Tag-Ao, si trova una piccola ma vivace comunità ATI.
Qui, circa una ventina di persone si riunisce quotidianamente per lavorare ad un progetto di artigianato.
Dopo aver raccolto ed essiccato solamente i rami più lunghi e flessibili del nito, una pianta rampicante locale, si ricavano delle fibre utilizzate per intrecciare vari oggetti di uso comune, come cesti, vassoi e sottobicchieri.
L’intreccio richiede molta abilità e precisione, poiché il nito deve essere manipolato con cura per creare i motivi desiderati.
Per questa ragione Rodnie, che ha appreso questa tecnica fin da bambino insieme ai suoi fratelli, ha assunto il ruolo di insegnante e guida gli altri membri della comunità nella creazione degli oggetti.

Quando mi sono immersa in questa realtà, ne sono rimasta subito molto affascinata.
Anilyn, presidente della Tag-Ao Livelihood Association, ha colto la mia curiosità e mi ha introdotto a queste tecniche di lavorazione, spiegandomi come continuare un lavoro già iniziato.
Nonostante la barriera linguistica, grazie alla sua guida paziente sono riuscita ad apprendere le basi dell’intreccio.
Mi sono ritrovata a lavorare accolta da persone straordinarie che, con un sorriso, controllavano il mio lavoro, correggendo i miei errori con gentilezza e trovando divertente la mia determinazione e inesperienza.
Alcuni cagnolini giocavano tra di noi e nessuno ne era infastidito. L’atmosfera era serena e concentrata.
Gli adulti, intenti nel loro lavoro, alternavano momenti di silenzio a chiacchiere, mentre i bambini giocavano nei dintorni. Ho trovato questa attività, molto simile al crochet, quasi meditativa, in grado di unire la comunità in un momento di lavoro condiviso.
La vita familiare si intreccia armoniosamente con il lavoro: durante una pausa, il marito di Anilyn le porta un caffè mentre i suoi figli si avvicinano periodicamente per una parola dolce o un abbraccio.
Improvvisamente, il cielo si è oscurato. Subito i bambini che giocavano fuori hanno cercato riparo dentro il tendone, che funge da spazio comune per il lavoro e i pasti. Dopo qualche secondo ha iniziato a piovere violentemente.

Dacché prima potevo sentire chiacchiere e risate in una lingua ancora purtroppo sconosciuta, ora quasi nessuno parlava in quanto il rumore forte dell’acqua sulla lamiera del tetto non permetteva di sentire molto oltre che la pioggia.
Nessuno tra gli adulti sembrava preoccupato e questo mi ha trasmesso tanta sicurezza; si limitavano solamente a chiudere le finestre per evitare che entrasse l’acqua, per poi continuare con il loro lavoro.
I bambini, inizialmente spaventati, hanno presto trasformato il momento in un gioco, ridendo e scherzando sul temporale, orgogliosi di essere riusciti a mettersi al riparo in tempo.
Il rumore assordante ha creato un’atmosfera surreale, offrendo un momento di riflessione e pace.
Nonostante il caos apparente ho continuato il mio lavoro, incoraggiata dalle donne che mi aiutavano.
Mentre i cani cercavano rifugio, impauriti dal frastuono, i bambini hanno iniziato a giocare e organizzare attività tra loro. In particolare, le bambine hanno dato vita a un gioco improvvisato, riempiendo l’aria di risate che si mescolavano al rumore della pioggia.
Questa esperienza nelle Filippine mi sta facendo riflettere su come la percezione delle cose possa cambiare a seconda del contesto culturale.
In Italia spesso associavo la pioggia a sentimenti di tristezza o malinconia. Qui, invece, la percepisco come un inno alla vita, una forza naturale che rinnova e rinvigorisce ma che può anche essere disastrosa e incontrollata.
Il temporale è durato circa un’ora. Quando la pioggia ha cessato di cadere, la vita della comunità è ripresa come se nulla fosse accaduto, ma con una rinnovata energia e un senso di freschezza nell’aria.
Gaia Borsa, Casco Bianco di Caritas Italiana a Capiz Filippine