Sedute in ufficio, io e Ari ci troviamo a fare i conti con un imprevisto: il centro dove prestiamo servizio, ovvero MPU “Mahali Pa Usalama”, sta continuando con i lavori di riparazione del tetto, di conseguenza il cortile all’aperto non è accessibile.
Insieme allo staff e alle maestre riusciamo a trovare un’alternativa per l’attività di gioco pomeridiana.
Dividiamo le ragazze in due gruppi: le più piccole da una parte con il play-doh, mentre le più grandi dall’altra con i fili degli scooby-doo. Anche io e Ari ci dividiamo e iniziamo il nostro pomeriggio con la musica ad accompagnarci in sottofondo.
A lungo ho pensato a come descrivere Mombasa, la città in cui ormai ho trascorso 7 mesi.
Grazie a questo pomeriggio, ho realizzato che la risposta era più semplice del previsto.
Mombasa per me è una scultura di diversi colori composta con il play-doh.
Mombasa per me è uno scooby-doo.
Quando inizi a comporre uno scooby-doo, per prima cosa devi formare due cerchi. Questi ultimi mi ricordano uno dei simboli più famosi della città, ossia Pembe Za Ndovu.
I fili, con i loro colori diversi, rappresentano le identità, le culture e le persone che abitano qui sulla costa, persone che si intrecciano e si mescolano terminando in unione, in comunità.
Adesso torna con me all’MPU, immaginati seduto/a con le ragazze intente a comporre il loro scooby-doo. Mettiti comodo/a, a gambe incrociate, scegli i fili, prendili e inizia anche tu.
Anche io inizio il mio e nel frattempo cerco di osservare ciò che mi sta attorno: vedo occhietti svegli e curiosi che scrutano la compagna vicina per cercare di capirne il meccanismo, vedo mani destreggiarsi, muoversi, fare, disfare, provare e riprovare. Osservo mani sicure, confidenti, veloci, ma anche mani indecise, frenetiche, esitanti.
Mi immagino me a Mombasa e per un momento cerco di vedermi da esterna: percepisco i miei occhi marroni nocciola tra le strade, tra gli edifici, le case, l’oceano, li sento muoversi da un estremo all’altro tentando di fotografare tutto ciò che trovano nel loro raggio, vedo il mio corpo camminare a volte in modo incerto per vie ancora a me sconosciute, a volte sicuro e senza timore per vie ormai considerate “casa”.
Mombasa ti sfida, ti mette alla prova. Un po’ come quando attraversi la strada qui; valuti l’andamento dei piki, dei tuk tuk, dei matatu, delle macchine e poi hai due opzioni: o rimani fermo ad aspettare a lungo oppure ti butti.
Sta a te decidere, ti assicuro però che la seconda opzione, per quanto più rischiosa, sia decisamente migliore.
In un secondo il pomeriggio mi è volato, sono arrivate le 16 ed è tempo di sistemare il play-doh e i fili degli scooby-doo.
Le ragazze vengono a mostrare a me e ad Ari i risultati ottenuti, fiere e contente. Ci salutiamo, ci abbracciamo e diciamo “kesho”, domani, ci vediamo domani, domani vengo, domani torno, domani ci sono.
Domani.
Sento il tempo scorrere e scivolarmi tra le dita.
Il mio scooby-doo non è ancora finito, ma ho oltrepassato la metà.
Domani.
Come sarà casa mia dopo questo anno?
Domani.
Quale sarà casa mia?
Domani.
Torno a Tudor a piedi e mi lascio accarezzare da “upepo wa bahari” e “joto la jua”.
A presto,
Chiara