Ad un mese dal nostro ritorno in terra d’Africa, si avvicina anche il giro di boa di quest’esperienza fantastica ed è quindi venuto il momento di una giusta riflessione.
Molte persone mi hanno chiesto di scrivere qualcosa, ma, essendo le mie capacità di scrittura non delle migliori, partirò dalla strofa di una delle canzoni di Messa più belle che ci siano (scusate, ma sapete quanto sono paolotto e continuerò ad esserlo).
L’ultima strofa di Mani dice:
“Noi giovani di un mondo che cancella i sentimenti ed intrappola le forze nell’asfalto di città,
siamo stanchi di guardare, siamo stanchi di gridare…”
Ecco, io quando ho fatto domanda per l’anno di Servizio Civile ero così: stanco di guardare e di gridare.
La mia vita non andava avanti oramai da mesi, e guardando fuori dalla mia bolla vedevo un mondo che non mi piaceva.
Ma come potevo essere stanco a 22 anni (oramai 23)?
Ho deciso che la mia vita doveva subire uno scossone, dovevo prendere e fare qualcosa. Così, ho scelto la periferia della periferia. Come ci ricorda spesso Papa Francesco, andare alla periferia del mondo orami non basta, la periferia esistenziale è il nocciolo da cui ripartire.
Qui in Kenya il carcere è uno dei più grandi stigmi sociali che possano essere incisi sulla pelle delle persone. Spesso, quando i ragazzi escono dal carcere, dopo un'esperienza che possiamo definire come “DA RIVEDERE”, non vengono più accettati nelle loro case e rientrano nel giro delle baby gang che sono la piaga di intere zone.
Ed è qui che entriamo in gioco noi. La Cafasso House è un centro che accoglie i giovani che escono da YCTC (il carcere minorile di Nairobi) per un periodo più o meno lungo, durante il quale i ragazzi intraprendono un percorso di formazione e risocializzazione.

"Siamo stanchi di guardare, siamo stanchi di gridare" - I giovani a Cafasso House
I ragazzi che arrivano da noi devono avere dentro di loro la voglia di cambiare, perché la vita che si vive dentro Cafasso è diversa da quella che spesso vivevano fuori dalle mura di Kamiti (il quartiere carcerario di Nairobi). Qui ci sono delle regole e degli orari da rispettare, che per chi ha vissuto certe esperienze di vita non è sempre facile. I ragazzi imparano ad essere autonomi nelle attività di tutti i giorni: sono loro a cucinarsi il cibo, a lavarsi i vestiti e a prendersi cura degli ambienti dove vivono.
Ma quindi io e Dana cosa facciamo? Ecco, il nostro ruolo è quello di aiutare i ragazzi nel loro percorso di recupero e reinserimento sociale.
Oltre ad aiutare i ragazzi nelle loro attività quotidiane, noi li affianchiamo per il percorso di rientro a scuola, facciamo dei laboratori di cucito e di cucina (almeno possono provare dei cibi che altrimenti non mangerebbero mai e sarebbero obbligati a mangiare sempre le stesse due pietanze) e organizziamo attività di gioco.
A raccontarla così, sembra però che stiamo vivendo un’esperienza facile a tratti esotica. Le difficoltà che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo non sono però poche: basti pensare che fino a pochi giorni fa non avevamo acqua in casa, e non potersi fare una bella doccia dopo un’intera giornata sotto il sole di Nairobi non è per nulla semplice.
Anche il fatto che in patria le cose vadano avanti e noi siamo qui non è facile. Tra poco più di un mese mi laureerò, un momento che io e la mia famiglia aspettavamo da tempo; eppure, eccomi qui, a 9 000 km di distanza da via Conservatorio, a sperare che quando verrà detto il mio voto, ci sia abbastanza connessione affinché io lo senta.
Ad onor del vero, eventuali criticità erano state messe in valigia, insieme a circa due kili di Grana Padano (a quanto pare qui in Kenya il formaggio non esiste). Quello che non pensavo era di dover lasciar così tanto spazio in valigia per farci entrare tutti i sorrisi che ho scambiato con i ragazzi incontrati in questi mesi.
Pace, vorrà dire che lascerò qui qualcosa in più.