Ho imparato che quelle scene e quelle sensazioni che si cristallizzano nella vita e nella memoria senza particolari ragioni, sbucano poi all’improvviso davanti a certi bivi. È quello che mi è capitato di recente.
Che fare davanti alle infinite possibilità? Tutte e nessuna davvero in mano?
È così che il videoproiettore della testa riesuma vecchie diapositive e ti proietta chiaro una possibilità. La mia scelta di fare lo SCE è legata, senza pensarci troppo, a due aneddoti. E uno di questi è così vecchio, da poter parlare a giusto titolo di diapositive!
Il primo aneddoto legato alla mia scelta
Il primo, dunque, è così perso nella memoria che non riesco a fissare un momento esatto. È più una dimensione, una fase, tutto ciò che ruotava nei miei ricordi di bambina intorno alle parole obiezione di coscienza.
Ho vissuto questa piccola rivoluzione di riflesso, attraverso anni di racconti, di esperienze, di campiscuola, cresciuta da una sorta di piccolo villaggio, fatto di tutte le comunità che nascevano nella mia città a seguito dei primi obiettori di coscienza. Tra questi, c’era mio padre. Non ho avuto possibilità… ho assorbito, incoscientemente, tutto (o quasi) quello che quell’esperienza ha aggiunto alle vite degli amici (amici dopo, amici della prima ora, amici per poco) che circondavano la mia famiglia e che condividevano questo percorso.
L’idea che tutto si poteva creare in quel momento, anche dal nulla cosmico di una città del profondo Sud, dove era impensabile pensare al “paese vecchio” (come lo cantava De André) come una delle maggiori attrazioni della Puglia chic che è oggi. Tutta questa storia, tra le altre cose, mi ha fatto aprire i polmoni a quella che allora chiamavano mondialità, imparando dove fosse il Mozambico quando avevo 5 anni (No, non voglio passare per la bambina prodigio, ma a me suona strano anche a pensarla oggi questa cosa!).
Ho interiorizzato la scoperta come mezzo per camminare e andare avanti; ho elevato la scomodità a valore, dal quale nascono aneddoti destinati a durare per sempre e immense risate che sciolgono tutte le tensioni.
Come quella volta in cui gli obiettori hanno organizzato una gita con i ragazzi disabili in pulmino e, poco dopo Bari, il cambio si è rotto. La gita è perfettamente riuscita lo stesso, perché il pulmino ha continuato a camminare in quinta, ed è anche ripartito in quinta dopo aver fatto benzina (certo, con qualche -molte- spintarella) e parecchi kilometri. Non è stato merito di nessun supereroe, ma solo di un gruppo che, davanti alla stessa difficoltà, ha messo a disposizione le sue risorse: chi la faccia tosta, chi l’ottimismo, chi le preghiere…
Conosco questi aneddoti a memoria, come se li avessi vissuti io. È ovvio che non è sempre stato così, ma sono parte di una memoria collettiva, di cui anche io faccio parte nei fatti. E questo è l’insegnamento, l’esigenza, più grande che mi è stata trasmessa: la dimensione collettiva, la comunità come luogo di partenza e come luogo di ritorno. La comunità che ha tutte quelle implicazioni che scandiscono certe scelte di vita: la solidarietà, l’aiuto, la cura, l’ascolto, la presenza, la partecipazione, ecc ecc
Il collegamento con la scelta del Servizio Civile risulta così facilissimo: ho vissuto, anche se di riflesso, tutta la sua carica creativa e generativa. È scritto nella mia storia familiare ed era necessario, stavolta, viverlo davvero e viverlo a modo mio.
Il secondo aneddoto
Il secondo aneddoto è decisamente recente ed ha a che fare con l’acquisto di una lavatrice nuova, a Nairobi. Ho fatto un tirocinio in baraccopoli per tre mesi e ho lavorato con due ragazzi del servizio civile per tutto il tempo. Ne abbiamo vissute di ogni insieme.
Una volta, si è rotta la lavatrice e ci hanno incaricato di andare al centro commerciale per cercarne una nuova. Erano giorni complicati e di grande nervosismo, perché c’erano dei problemi con l’OLP, che era anche il mio riferimento.
Entrambi i miei compagni di avventura, erano piuttosto abbattuti, tanto che mentre giravamo tra gli scaffali, commentando la situazione, Maddalena mi ha detto: “non lo so Fra, per la prima volta sto pensando davvero di voler tornare in Italia..”. Non è stato il caldo, la fatica a farli cedere a quel pensiero, non sono state le delusioni, gli orari assurdi, le incertezze, le sfuriate. È stata l’assenza di un interlocutore affidabile che li ha buttati giù. Loro, così capaci, così pieni di risorse e a volte proprio impavidi. Allora li ho guardati e gli ho detto “Ragazzi, mi state davvero facendo passare la voglia di farlo il servizio civile (all’estero)…”
Nel momento in cui ho tirato fuori quella paura e me la sono ritrovata davanti senza filtri, ho capito che era un percorso che dovevo assolutamente fare. Dovevo assolutamente superare quel limite, la paura di non essere all’altezza delle situazioni o abbastanza plastica per sopravvivere a quelle oscillazioni continue. Dovevo assolutamente trovare la conferma contraria ai miei timori, alle mie seriose certezze. Dovevo necessariamente imparare ad andare oltre la sensazione che tutto è finito, solo perché non è – in quel brevissimo momento - come lo avevo pensato.
Ed eccomi qua, a fare questo esercizio prima ancora di cominciare, prima ancora di partire, a ripetermi le stesse cose, anche quando devo scrivere un post che non è esattamente come lo avevo immaginato.
Francesca