Di solito alla Cafasso iniziano a preparare l’impasto prima ancora che suoni la sveglia a casa SCE. Quel venerdì mattina mi sono sentita un’eroina: nonostante le ore piccole, ho sconfitto l’impulso di tornare in posizione orizzontale e ho respinto un’invasione di scuse che spesso capovolgono i miei piani.
Ho preso un piki piki per raggiungere Kamiti – un peccato! A sapere che sarebbe stato il mio ultimo giorno di servizio sarei volentieri andata a piedi. Per la prima volta osservavo Kahawa così presto e mi è sembrato di essere in un posto nuovo: nessuna traccia del caos che accompagna i nostri soliti spostamenti. Come cambiano le cose a distanza di un’ora e mezza!
Il pane viene preparato due volte a settimana e oltre ad essere consumato in Cafasso può essere venduto. La produzione è gestita dalla house mother con l’aiuto di uno dei ragazzi. Quel giorno il procedimento sarebbe stato influenzato dall’introduzione di una nuova variabile: il mio coinvolgimento. Devo dire che non c’è stata una fase da cui sono stata esclusa, mi hanno lasciata mettere lo zampino in ogni mansione. Probabilmente non immaginavano la mia totale inesperienza in ambito culinario.
Addentrarsi nei particolari di un processo rende evidente una grande quantità di dettagli da tenere in considerazione per fare bene ciò che al primo sguardo sembra semplice. Non sto dicendo che fare il pane sia particolarmente difficile, ma le modalità e i mezzi keniani rendono il processo lungo… e io sono riuscita ad estenderlo ulteriormente per dare spazio alle mie manie di perfezionismo.
Il momento più faticoso è stato all’inizio: davvero difficile impastare 8 kg di farina! Il resto tutto in discesa e la motivazione tutta in salita. La soddisfazione che ne deriva è travolgente! Ma questo lo avevo già previsto ed è stato il motivo per cui mi sono alzata dal letto. Finalmente potevo cancellare un altro punto dalla mia “to do list”: ho imparato a fare il pane.
Quel giorno è stato diverso dai soliti, e non solo per il pane. Mentre l’impasto stava lievitando ci siamo trovati tutti nella saletta comune per il tea break. E qui ho appreso la notizia del giorno: primo caso confermato di COVID-19 in Kenya.
In questo mese e mezzo abbiamo riscontrato diversi atteggiamenti nei confronti del coronavirus. Tra le diverse versioni girava voce che non sarebbe resistito al clima locale, e alcuni ragazzi ripetevano che il sistema immunitario dei keniani fosse resistente al virus. Un’iniziale tendenza a sminuire la pericolosità del potenziale contagio, come è accaduto anche in Italia.
Quel venerdì mattina, ironicamente un 13, tutto è diventato incerto. Era evidente che le cose sarebbero cambiate, ma non pensavo in modo così drastico. Certe ipotesi, che possono sembrare anche logiche, vengono semplicemente rifiutate dalla mente. A pranzo sono venute in visita a Cafasso alcune persone esterne e nel consueto giro di presentazioni ho ripetuto un’altra volta “I’m staying here for one year”.
Il pomeriggio ci è arrivata l’indicazione di ridurre al minimo gli spostamenti: meglio passare il weekend in casa in attesa di aggiornamenti. Eppure ci sentivamo ancora al sicuro.
Il giorno dopo - l’annuncio ormai temuto: tutti gli operatori volontari della Caritas devono rientrare in Italia. Poi un cocktail di emozioni devastanti e stati d’animo altalenanti, sia miei che di Camilla. Rabbia, incredulità, disperazione, lacrime e risate… e poi la rassegnazione. È giusto così. La consapevolezza di essere impotenti di fronte a tutto ciò era molto frustrante. Cosa che in Italia era già accaduta e che io avevo deciso di ignorare: ora non potevo più scappare da questa realtà.
La mia decisione di tornare a Nairobi per un anno di Servizio Civile risale al 2016. Ho aspettato 4 anni, aspetterò ancora. Non abbiamo finito di sistemare la casetta e non ho ancora avviato il corso di chitarra in Cafasso… E devo rifare il pane!
Dana